Testi critici
Arte in scena - Conversazione sulla ceramica
Roma - 14 febbraio 1998
Con la partecipazione di:
Simone Crespi, Immacolata Datti, Giorgio de Marchis, Nedda Guidi, Vittoria Zileri
A cura di Carla Vasio
Vittoria Zileri - In previsione della mostra, “Sculture in ceramica” che si inaugura il 5 maggio, sei amici si incontrano nella sede dell’Istituto Internazionale per l’Arte Contemporanea “Arte in Scena”, per confrontare le proprie impressioni sulla scultura in ceramica oggi.
Nedda Guidi - Per noi è importante precisare che si tratta non di ceramisti bensì di scultori in ceramica. Bisogna stare molto attenti quando si parla di ceramica, perché è come camminare sul filo del rasoio. Non ho nessuna remora a dire: “Io faccio ceramica”. Tutto ciò che è fatto con la terra si chiama ceramica, basta guardare il dizionario, e non ho nessun complesso a dichiarare che sono una ceramista. C’è sempre qualcuno pronto a obiettare: ma bada che tu sei una scultrice, anzi qualche volta mi chiamano addirittura scultore. Va benissimo, però c’è una particolare difficoltà a precisare i vari settori in cui si svolge e si è sempre svolta l’ attività del ceramista, dal tempio fino al piatto. Questo è il problema. Ma in questo caso mi sembra chiaro che si tratta di un impegno rivolto piuttosto a uno studio, a una ricerca di tipo espressivo e, se si vuole, simbolico. Infatti tutti e due gli scultori che espongono qui lavorano con la terra e, pur con le dovute distanze, appartengono a un’area culturale ben precisa: quella del Mediterraneo.
Giorgio de Marchis - E del medio oriente.
Simone Crespi - Io arrivo fino all’estremo oriente, visto che sono stato un anno in Giappone a lavorare.
N. G. - Non direi: del Giappone non hai proprio niente, tranne la perfezione tecnica, soprattutto perché cuoci ad alta temperatura come si usa in Giappone. Questo ti permette di raggiungere una consistenza materica che qui raggiungono in pochi e a Roma nessuno. Noi restiamo tutti al di sotto dei 1.000 gradi, mentre tu arrivi a 1.250. Tuttavia bisogna riconoscere che dell’alta temperatura non hai la rigidezza; come si è detto ne hai la sostanza, ma qui non stiamo parlando di problemi tecnici. Inoltre lavori in riduzione di ossigeno e questo ti permette di ottenere delle varianti di toni tutte inerenti alla terracotta stessa. È questo che hai imparato in Giappone, perché loro lavorano soprattutto sulla riduzione.
G. de M. - Comunque, il manufatto ceramico mi dà delle suggestioni notevoli perché il sesto giorno della creazione l’uomo fu creato impastando la terra. Degli altri giorni si dice che Dio creò il Sole, la Luna, le stelle e così via, ma plasmò di terra solamente l’uomo che è un manufatto manuale dell’Eterno Padre, e lo fa di terra. Quindi dietro ogni manufatto ceramico l’eco della creazione dell’uomo, con la nostalgia del giardino in cui fu posto che era anch’esso un manufatto, rimane. Inoltre nel manufatto ceramico tu hai una confluenza organizzata di tutti gli elementi che costituiscono il mondo fisico: hai la terra, hai l’acqua, hai il fuoco, hai l’aria che tu sottragga o meno l’ossigeno, dove sia smaltata hai il metallo che è un altro degli elementi costitutivi del mondo, e in alcuni casi, come nei manufatti di Immacolata Datti, hai il legno che è un altro degli elementi fondamentali. Quindi l’intero mondo fisico contribuisce al manufatto ceramico: il primo manufatto che viene plasmato. Noi stessi siamo stati fatti di terra. E non solo l’uomo è fatto di terra, ma probabilmente anche quello che è il Paradiso Terrestre: pairi daesa in persiano avestico significa muro e questo recinto, in cui è contenuto il Paradiso Terrestre e l’uomo, sappiamo che è quadrato, che ci scorre l’acqua, che ci sono gli alberi; ma, soprattutto, il recinto è quello che separa un mondo ordinato che sta all’interno da un mondo disordinato e casuale che sta fuori. Questo recinto non può essere fatto che di mattoni. Se tu pensi alle città mesopotamiche, a Babilonia, a Ur, erano città di mattoni, certamente non dissimili da quelli che fa Immacolata Datti. Altra cosa: la scrittura. Gli archivi di migliaia di anni fa che abbiamo trovato, e sono impressionanti, sono tavolette di terra con la scrittura incisa raccolte in una specie di biblioteca: ci sono dei ripiani con sopra mattoni su mattoni dove stanno scritte le cose che bisogna conservare per iscritto. Dunque, che da tutto questo si arrivi al manufatto ceramico di oggi corrisponde alla storia mai interrotta della tecnica d’uso di una materia che non si è interrotta mai, cui influenze occasionali, semplicemente perché oggi è facile viaggiare come fai tu che vai in Giappone, non aggiungono molto. C’è dietro ben altro.
Immacolata Datti - Mi stimola molto l’idea del recinto quadrato, perché riconosco qualcosa che mi è molto congeniale. Io sono radicata a Roma e questo fatto della città quadrata ce l’ho proprio dentro. Uso la terra come materiale alchemico, su questo sono d’accordo, e uso la mia parte mentale nel calcolo delle proporzioni e nelle distanze, cioè nel rapporto vuoto pieno. Però la parte mentale mi sembra molto fredda e anche molto divertente, ma deve anche arrivare a darmi una sensazione e un’emozione perché la parte emotiva è importante: un’emozione che è il risultato di certe proporzioni ed è probabilmente per me un ricordo. Infatti ho sempre la sensazione di lavorare sulla memoria e le tracce che lascio in questi grossi mattoni, anzi in queste pietre - e questa è un’ambiguità, perché sono pietre, ma poi sono mattoni non pietre - tutti quei segni, che sono magari carte che ci metto intorno o legni oppure le lascio all’aperto in modo che si sporchino, sono una memoria e magari una scrittura che rimane incisa nella pietra.
N. G. - Vorrei aggiungere un’osservazione a quello che avete detto. Quando ho incontrato la Datti, mi sono trovata come a casa mia: è talmente dentro una tradizione, una sensibilità, una attenzione a quelli che sono gli elementi costitutivi della costruzione, che non mi ha dato nessuno sconvolgimento. Quegli elementi che lei chiama pietre naturalmente sono simulacri, perché è evidente che l’arte lavora su una immagine, una memoria, anzi direi memoria e costruzione, un tema che ho sempre sentito. Nell’osservare, nel praticare questo suo lavoro fatto con elementi primari, perché lei lavora sugli elementi primari, e quindi questa sua “fede” nella geometria, negli elementi puri, mi sono detta: ma noi due facciamo un discorso fra pari, un discorso di comunicazione senza bisogno neppure di interpretazione. In questo oggetto ci sono 15 elementi, li ho contati, che sono moduli e sottomoduli, essendo cubi e parallelepipedi, poi ha tagliato addirittura il cubo a metà. Quando ha voluto costruire questo che io sento come luogo di meditazione o di memoria; la scansione dei vuoti e dei pieni nell’aggiustamento dei vari elementi fa parte di un percorso emotivo prima di tutto, poi ha dovuto organizzarlo razionalmente. Quello che vorrei dirle è di non aver paura della sua parte razionale che organizza le emozioni, perché è chiaro che lì c’è un progetto finalizzato, addirittura nel numero, addirittura nella forma, perché avrebbe potuto anche scegliere un’altra forma e invece ha scelto proprio l’elemento primario squadrato di un parallelepipedo e di un cubo. Dunque, non deve avere paura della sua razionalità. È importante sapere che in fondo c’è sempre un’operazione di ricordo, ma è l’intelligenza che organizza il mondo: l’importante è che nella resa non rimanga fredda. Quando io utilizzavo il modulo, avevo degli scontri piuttosto accesi con Filiberto Menna, che mi era amico e protestava: tu utilizzi il modulo per poi dare un significato. Devo precisare: per me il modulo è la scelta di una forma geometrica, cioè una posizione di preferenza, ma è chiaro che la geometria mi dà anche armonia.
G. de M. - Un luogo è un luogo solo se è uno spazio organizzato; se no, è un non luogo.
N. G. - D’accordo. Infatti quello di cui volevo parlare è la sua non accettazione della propria parte organizzativa. Immacolata, non potresti fare niente se tu non organizzassi gli elementi in un certo modo, lasciando anche un percorso.
G. de M. - Immacolata Datti dice: non è un modulo. Infatti non sono moduli, però c’è una geometria assoluta. Senza geometria non esiste niente di reale. È vero che abbiamo di fronte uno come Crespi a cui della geometria non potrebbe importare meno. Dunque, qui potremmo considerarci di fronte al razionale di Immacolata Datti e all’irrazionale di Simone Crespi. Ma all’origine c’è una cosa in comune, che mi interessa. I Dadaisti nel 1916 al Caffè Voltaire a Zurigo discutevano seriamente di quale fosse la lingua adamitica. Purtroppo non arrivarono a nessuna soluzione, ma intanto la polizia li sorvegliava come pericolosi sovversivi. Al tavolo vicino stava seduto un signore col pizzetto che si pigliava il suo tè ed era Lenin, con un’aria così per bene che la polizia svizzera non se ne è occupata mai. Dunque, i linguaggi: nascono con la torre di Babele, prima c’era la lingua adamitica. In queste opere abbiamo uno stesso materiale e due linguaggi diversi, che fanno sempre parte del fabbricare anche se alla base dell’uno c’è un’esigenza razionalé e alla base dell’altro c’è un’esigenza irrazionale. Ma in che cosa sono linguaggi tutti e due? Questo discorso ci riporta particolarmente alla ceramica. Per quanto voglia essere razionale Immacolata Datti e irrazionale Simone Crespi, tutti e due debbono fare i conti con la mediazione di una tecnica, perché la ceramica non è un atto immediato, se no saremmo appunto l’Eterno Padre, quindi c’è una manualità che deve seguire certe regole e precisamente le regole che sono richieste dalla materia che si usa. Perciò, sia la razionalità dell’una che l’irrazionalità dell’altro si devono manifestare attraverso un procedimento tecnico che ha le proprie leggi e le proprie esigenze con le quali bisogna fare i conti. Per arrivare al manufatto, che altrimenti resterebbe un’idea, serve tutta una serie di operazioni necessarie, qualunque sia il linguaggio usato, e quindi una lunga mediazione fra quello che è il temperamento dell’artista e quello che è l’oggetto che si vede per terra o sul tavolo. In tutte questo lavoro, da una parte c’è l’artista che ha una certa idea creatrice ma, essendo incarnato, non ha la facoltà di dire sia la luce e la luce fu, dall’altra il doversi misurare e lo scegliere le forme in cui si può misurare per avvicinarsi a quello che pensa attraverso tutta una serie di procedimenti estremamente complessi. Certo che di questi procedimenti resta la memoria nell’oggetto stesso, e ben diceva Immacolata Datti che c’è questa specie di scrittura se no creerebbe il teorema di Pitagora come cosa mentale. No, questa non è una cosa mentale: ha le sue misure, il suo peso ecc. Questa geometria non è geometria pura ma è geometria costruita. Anche a quelli come Crespi, non è che dalla testa escano tutte le loro immaginazioni: bene o male le devono chiudere, devono dare loro un peso, un’ altezza, una dimensione, una misura.
Il lavoro del ceramista per me è questo, stanti le differenze di linguaggio che sono una cosa normale dalla torre di Babele in poi.
S. C. - Quello che sento come sensibilità personale rispetto alla ceramica è piuttosto complesso: sento in qualche modo un amore sviscerato per questo materiale, che è quello che conosco. Non ne ho mai provati altri, se avessi cominciato con la pietra non so che cosa sarebbe successo. Il sentimento di spiazzamento mi capita quando vengo in contatto con il mondo dell’arte contemporanea in cui in effetti ci si avventura nelle nuove tecniche, la fotografia, il montaggio fotografico, il video, le performance, tutte cose alle quali partecipo come spettatore e nella cui corrente in qualche modo mi sento. Però è proprio nel senso del materiale che avviene lo spiazza-mento: usare questo mio materiale che è appunto adamitico, che in certo qual modo è il più basilare, questo mi può dare un senso di spiazzamento rispetto al contemporaneo perché sembra quasi una cosa troppo semplice, ed è proprio questa semplicità che ho il dubbio possa venir capita. Storicamente la ceramica è stata usata con la sua piena potenzialità soltanto dalle culture arcaiche, poi con i Greci si è passati al marmo.
G. de M. - Certo, per la statuaria.
S. C. - Io cerco di fare la statuaria con la ceramica. Potrei farla in bronzo, ma il bronzo è un materiale più caro, con cui non ho mai lavorato. Si fanno cose del genere in vetroresina o in alluminio anodizzato, ormai gli artisti la ceramica quasi non la usano più. È vero che ora c’è in qualche modo un certo ritorno. Però, in confronto a quéllo che è stato il percorso del concettuale quando gli artisti non intervenivano direttamente sui propri lavori, oppure in confronto ad artisti come Jeff Koons che ha fatto sì il ritratto di Michael Jackson in ceramica ma delegandone ad altri la realizzazione, quindi artisti che scelgono un materiale su cui non intervengono direttamente, in confronto a questi io sento di avere un amore per il procedimento oltre a una conoscenza tecnica che mi permette di realizzare direttamente molte cose. E tuttavia mi rimane sempre un certo senso di spiazzamento.
N. G. - Va bene spiazzamento, ma penso che ormai ci sia un po’ più di attenzione verso il materiale. Quando negli anni Sessanta io utilizzavo l’argilla mi dicevano: Nedda, perché non fai le stesse cose in plastica oppure con delle fusioni? Ma in me c’era la determinazione di ridare statuto d’arte anche a un materiale che tutto sommato poi resta nel tempo a segnare la storia. Sembra io stia dicendo una cosa troppo grossa, ma quando penso che un Melotti nascondeva i suoi oggetti e non faceva sapere a nessuno che faceva anche ceramica! Questo è il complesso di cui tu parli, da cui spero non ti faccia mai condizionare. Perché la velocità, chiamiamola così, di realizzazione di un’idea che danno altri materiali forse non ti appartiene come temperamento. Qui ci vuole tempo: il tempo è asolutamente necessario, è fondamentale. C’è un senso di attesa, di attenzione, che pochi materiali hanno, anche quelli per cui prepari una maquette e poi magari te la realizzano altri. Noi abbiamo deciso che dal principio alla fine il procedimento sia condotto dalla stessa persona. Credo che sia molto importante anche il momento del fuoco. Io ho sempre avuto un rapporto di paura nei confronti del fuoco, e ho anche scritto qualche pagina su questo. Perché in realtà il fuoco è l’elemento di trasformazione che ne fa il punto conclusivo di tutta l’operazione. Arrivo a dire che forse molti critici non si avvicinano alla ceramica perché è troppo difficile riconoscerne il percorso.
G. de M. - Vorrei fare due rapidi correttivi, proprio da critico. Primo: mettiamoci in mente che ogni materiale ha il suo carattere specifico. Queste cose di Immacolata Datti che vedo qui esposte non c’è nessun problema a farle in vetroresina. Ma sarebbe la stessa cosa? Assolutamente no. Esiste una qualità espressiva della materia e del procedimento che non può essere trasposta. Quanto al sentimento di arcaicità che la ceramica porta con sé e al proliferare di nuove tecniche nell’arte attuale cui accennava Simone Crespi prima, ne sono ormai ventennale testimone, ma non ho visto mai nessuna di queste aperture che fosse il superamento di una frontiera conoscitiva, dato che l’arte è uno strumento di conoscenza, né un passo avanti. Non c’è stato nessun allargamento di orizzonte: c’è stata una moltiplicazione di strumenti a disposizione, che è diverso, senza che l’orizzonte si allargasse di un centimetro, il che nella generazione alla quale Simone appartiene ha dato luogo a un eclettismo di generi e di linguaggi che è, storicamente parlando, proprio il carattere dominante degli ultimi venti anni. Io non vedo nessuna apertura e nessuna tendenza. Non è il computer che mi fa una tendenza le tendenze sono state un’altra cosa.
S. C. - Però alla Quadriennale...
G. de M. - Ma che cosa vuoi che prenda come punto di riferimento i pezzi esposti alla Quadriennale. Fra le migliaia di artisti che mi circondano, diciamo quelli nati dal 1950 in poi che sono senza passato e senza memoria, esiste un proliferare di strumenti diversi e di esperienze diverse, che non sono esperienze basate su un’ipotesi da verificare ma si limitano a dar luogo a una differenziazione di generi. Siamo ritornati ai generi. Quando tu non eri ancora nato, l’astratto e il figurativo erano due tendenze in conflitto, adesso sono due generi. Uno scrupoloso critico d’arte che si muovesse adesso può semplicemente trovare degli oggetti graziosi ognuno nel suo genere: è ben riuscito quello col computer, grazioso; un altro è il quadro con la pastorella, grazioso; e così via. Ma non c’è nessun tipo di vera innovazione. Allora, in questo panorama eclettico - che tale è: non è un giudizio negativo, è un giudizio di fatto; pensa alla letteratura alessandrina con le sue antologie - il fatto di lavorare con un materiale, che in quanto tale si porta per lo meno dietro echi millenari, dà l’impressione di qualche cosa di meno transitorio. È già una cosa consolante per chi lo guarda, pur se resta anch’esso un oggetto dell’eclettismo dell’epoca.
I. D. - Vorrei riprendere il discorso che faceva Nedda sul fuoco, sulla trasformazione, dunque sul procedimento alchemico nella creta, quindi nella ceramica. È il momento in cui la mia opera diventa altro da me e io la vedo là trasformata. Noi attiviamo questo procedimento, ma poi restiamo sorpresi a dialogare con una scultura che ci rimanda delle emozioni da noi immaginate all’inizio. Vorrei aggiungere qualcosa sulle proporzioni dei pez conoscere la posizione di uno storico dell’arte, come Giorgio in questo caso, o la mia, cioè di una che lavora nel campo ma che ha riflettuto su queste cose. Non mi va di assumere un ruolo che non mi appartiene, tuttavia quando devo parlare parlo, nel senso che l’esperienza è tanta e tutto sommato qualcosa da dire posso averla. Se non altro perché nel mio lavoro ho sempre cercato di combattere sul doppio fronte: nell’ambito della ceramica, perché il mondo della ceramica poco ne capisce o per lo meno qualcosa percepisce ma non accetta molto; poi nel mondo dell’arte contemporanea, perché c’è sempre qualche resistenza da superare visto che ancora oggi la ceramica pare intrisa di una artigianalità in senso limitativo, che invece tutto sommato ci salva. Forse saremo dei romantici: io non lo sono, ‘però la lotta c’è stata. Né sà qualcosa Nino Caruso. Un doppio fronte quindi, perché devi essere capita e accettata, quindi devi anche sapere che cosa il mondo della ceramica vuole e quindi possedere quelle conoscenze di tipo tecnico costruttivo che appartengono a un materiale particolare. Ricordo che una volta Bonito Oliva mi ha detto che la ceramica è un materiale talmente particolare che non ci si avvicLia tanto facilmente: questa è la difficoltà. Allora, non è che io voglia trarre conclusioni, ma credo che quando si vedono lavorare delle persone con continuità, si vede che al di sopra di ogni sospetto continuano a proporre la loro ricerca, si vede che dietro c’è tanta pazienza e tanto amore, credo che sia una cosa molto importante. Quando oggi si parla di perdita di valori bisogna anche vedere dove si perdono e dove si guadagnano.
Consideriamo questa soluzione di luogo, qui esposta dalla Datti, che io vorrei sentire come luogo del pensiero, della meditazione. Al limite, è una costruzione che mi ricorda tanto una mia esperienza dell’anno scorso, quando sono stata a Hierapolis, una città morta in Anatolia. Mi sono seduta sulle pietre a pensare al tempo che era passato, il collasso di una civiltà che era esistita mi ha toccato profondamente. Dunque, questa è l’immagine che io ho di un passato; ma per te questi elementi sono una fine, cioè quello che rimane della storia, o un cominciamento?
I. D. - Entrambi. Parlavo di ambiguità: infatti questi per me sono delle tracce, dei resti, e insieme sono un progetto futuro.
N. G. - Effettivamente questo insieme può essere l’inizio di una costruzione, perché non c’è niente che dia l’idea di una costruzione più dei solidi; nel contempo hanno una magia di reperti. Quindi c’è un legame fra un passato un presente e un futuro, cioè una piena estensione temporale. Bisogna riflettere quando Immacolata dice che è un resto e nel contempo un inizio.
I. D. - Mentre me lo domandavi, pensavo di stare fuori dal tempo proponendo queste forme: fuori dal tempo nel senso che tutto è possibile, il passato o il futuro, e allora forse il tempo non esiste, forse è vero soltanto l’attimo presente, e la scultura può dare proprio questa sensazione di presenza, di immediatezza, senza porsi il problema del prima o del dopo poiché è entrambi e entrambi li annulla nel presente. Del resto anche la fisica quantistica ci sta dicendo che solo il presente esiste, se esiste.
N. G. - Sono rimandi di tipo metaforico su cui si potrebbe continuare a parlare all’infinito. Io ho sempre avuto un problema che voglio confessarvi: un problema di tensione all’autonomia degli elementi e poi invece di recupero del significato. Il che in fondo è una prassi mentale anomala. Ad esempio, il modulare utilizzato da Carrino ci dà pochi rimandi di tipo metaforico, anzi c’è addirittura l’annullamento del contenuto metaforico, e quello è il suo bello: interessante è la freddezza dell’operazione, fondata sull’autonomia degli elementi che parlano di per sé e non pensi ad altro. Nel mio caso invece c’è sempre stato questo scatto, nel momento in cui lavoravo, dell’aggregazione. Perché importante è non il singolo elemento, in questo caso di natura geometrica, ma è la sintassi dell’aggregazione dei vari elementi, la loro disposizione. Uno scrittore sa molto bene l’importanza della °scelta dei termini e della posizione in cui vengono messi singolarmente per fare un tutto.
Dunque, c’è sempre questa ambiguità che Immacolata diceva. Infatti io poi inventai il modulo caldo. Nel senso di un modulo che non muore nella sua staticità, in quell’assoluto concettuale, ma che poi invece dà anche qualche rimando metaforico. Però, francamente è un’operazione un po’ spuria. Ma è anche un abbinamento sollecitante. Come tutti gli ossimori, dice Carla e ha ragione.