Testi critici
Elisa Debenedetti
ARTE - “Immacolata Datti Mazzonis”, 1976
Condensata in alcuni versi di Cesare Pavese riportati in Catalogo: “Le donne da noi stanno in casa e ci mettono al mondo e non dicono nulla e non contano nulla e non le ricordiamo”, la donna madre viene raffigurata soprattutto in bozzetti di terracotta da Immacolata Mazzonis: bozzetti in scala abnorme che hanno come precipua proprietà un contrasto intrinseco, che riproduce forse un conflitto interiore: più naturalistici che plastici come verrebbe fatto di pensare a una analisi superficiale, sono espressionistici e impressionistici allo stesso tempo, proprio anche da un punto di vista luministico. Semmai a qualcuno fanno pensare, questa è proprio Raphael Maafai. Ma il parallelo, appena pronunciato, cade nel nulla. Sommessamente, ci viene infatti incontro una propostaq astratta. Il corpo gravido si buca, vi compare un uovo, quasi su un altare. Il bambino viene accompagnato con gesto solenne e protettivo fuori dalle membra ormai scavate, le uniche curve superstiti sono quelle formate dai seni che hanno riacquistato un aspetto disteso. Il bambino, solidamente piantato sulla terra, se ne va per la sua strada. In uno stadio più avanzato del discorso, vien fatto di pensare ad Alberto Savinio, giacché affiorano da questa scultura chiaroscurale (o per ricalcare le orme di Mercuri, chiaramente aperta, pittorica) delle immagini senza dubbio letterarie: il corpo di donna- madre è infatti così scarno e così bucato a nascita avvenuta da contenere appoggiato nell’incavo della sua maternità che è ormai soltanto una associazione mnemonica, cioè psicologica, il piccolo bambino quasi a mo’ di dolce “poltro-mamma”. Più che turgidi ventri e seni rigonfi sono vuoti ricordi, ventri rientrati in se stessi al punto di restare solchi, contrazioni, buchi.
Buchi che destano orrore? È questo che verrebbe da pensare, vedendo nell’ultima sala della mostra allestita all’UDI la donna crocefissa con un urlo di sofferenza.
A questo punto si può più o meno condividere la poetica di Immacolata Mazzonis, che probabilmente contiene in se stessa un peso atavicamente cattolico: è infatti chiaro che l’incontro con l’uomo è faticoso e pesante se visto sotto questa luce, a quanto anche si può arguire dalle due teste di uomo e donna ravvicinate che camminano pesantemente per una strada che hanno probabilmente imboccato da poco. Tuttavia, il suo è un discorso molto valido proprio perché ha un fiato che va oltre l’assunto: e questo non solo figurativamente, ma umanamente: e in questo caso le due cose sono strettamente legate. Legate proprio perché il suo messaggio cadrebbe vuoto e senza valore, qualora non vi fosse dietro un credo femminile capace di sostenerlo. Ciò si nota soprattutto nei miglioramenti avvenuti dalla prima mostra (Spoleto, luglio 1075) a queste ultime cose.
Anche le tecniche usate, materia grezza o smalti, non mutano molto il discorso che resta, ai fini estetici, sostanzialmente lo stesso, piegandosi man mano, in quello che abbiamo chiamato il terzo stadio, verso implicazioni più astratte. Le impronte affioranti sulla superficie della creta sono infatti frequenti, nervose e, per rimanere in linguaggio scultoreo, bozzettistiche, come asciutto, scarno e senza commento è il segno degli smalti.