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Fausto Cimara

“Immacolata Datti Mazzonis e la pietra”
Scena Illustrata, luglio 1982


Modesto il gioco di parole ma è proprio con candida emozione che questa Immacolata, la scultrice Datti Mazzonis mi ha indicato la validità della sua opera, con il causale consenso di spettatori del centro-America, presenti all’affollatissima vernice nella Galleria Antiquaria dell’Arco: per la cronaca, un centro di classe.

La mostra scaturiva dai famosi incontri d’arte di via Giulia; l’emozione dalla sorpresa di alcuni costaricani che, nel suo atteggiamento, riconoscevano fiabe della loro mitologia.

In tale quadro: l’arcobaleno, prototipo dell’illusorio visuale che, all’imposta dell’arco, si sarebbe metamorfizzato in pietra. L’arcobaleno dell’Autrice identifica invece il suono, preso a modello di forma in terracotta refrattaria, da sagia monocottura che, al tatto, reagisce come pietra, nel colore stesso della più antica pasta geologica mediterranea.

A tale segno coerente il titolo della mostra: “Tra suono e forma”, che saltava subito all’occhio la fusione d’ogni soggetto con effetti acustici materialmente ricavati dalla oscillazione di metalli (lamine, corde); oppure invisibilmente promossi da elettronici congegni; o, meglio, posseduti nel significato musicale più segreto della forma stessa. Tipico in questo il ritratto di un “Do”, anzi d’un accordo in “Do Maggiore”, con tutta la stabilità del suo maschio impianto intervallare. Non meno tipiche altre “forme inviluppo”, ruotanti su vorticose cavità mooriane.

Dice un arguto motto pugliese: “Se Parigi avesse il mare sarebbe una piccola Bari”. Visto l’impegno con cui la composizione risolve la forma, diremmo: “Se Henry Moore avesse amato l’ipersensibile, sarebbe stato una piccola Datti Mazzonis”. Con licenza. Seriamente diciamo che la valorosa interprete dei sensi, parte dalle frequenze d’onda (colore o suono davvero non importa) e le conduce a forza nei parametri del solido per esigenze non arbitrarie che pare risolvano l’equazione: Astratto sta a Concreto come suono a forma.

Anche dal punto di vista convenzionale, l’opera regge il più litico giudizio. In scultura, la materia modellata può tradire mollezze residue nella solidificazione dal calco. Nel gesto della Scultrice vive l’immediazione d’una scalpellatura di prima mano. Quanto all’altro termine del suo binomio, ho apprezzato la scelta di acustici complementi al visuale, non presi dai Classici ma dalla pura voce (ricavata da un Complesso Vocale Sperimentale) che potrebbe riportarci al penultimo Prokofiev, l’epilogo d’una cantata come “Alexandr Nevski” ma ben più alla sommesa recitazione, anzi fonica meditazione, delle Scritture buddiste, sublimata nei monasteri più vicini al cielo, come a Lhasa in Tibet, riaffiorate direi in certi canti popolari sardi: uno strato di “basso” profondo in fusione con astrali, metallici effetti d’alta frequenza che bene disegnano sensibilità primordiali.

Nulla di strano dunque per cere arcaiche sensibilità riscoperte nella filosofia dei costaricani, forse dovuta all’orgoglio d’una razza che, pur l’unica bianca dell’America Latina, ha mantenuto singolari coerenze. Filosofia che ha dato loro l’unica ma folgorante rivoluzione del 1948, contro lo sfruttamento straniero, lasciando sul terreno segni inimitabili come le metamorfosi di iridate caserme in(funzionanti) musei di Belle Arti.

Pari, orgogliosa fibra riaffiora in altra emblematica legenda sarda che narra: “Creato il mondo, Dio si ritrovò in tasca una manciata di pietre. Le gettò in una pozza e vi mise su il piede”. Questa infatti la Sardegna, in tutta la sua amara bellezza, sigillo di garanzia d’un pianeta fatto non per l’Uomo, autodeterminista almeno.

Concediamo dunque il beneficio dell’emozione in incontri metafisici tra ipersensibili creatori, specie in un mondo che, almeno fino all’avvento del Razionalismo, ha potuto godere di illusioni poetiche, anziché scientifiche, come l’arcobaleno dei costaricani.

Anche l’arcobaleno dell’espositrice esiste in più di un’allusione a pietre , sottese dall’arco di lieve lamina metallica che nella pietra nasce e muore sublimandosi, al tocco, in uno spettro vibratorio quasi ultrasonico. Ancora un festival di due mondi…

Idee, idee. Quanto ricca di suggerimenti questa mostra appare per molti versi: da un cuore (o embrione fetale ancora aperto, in attesa di definizione ormonica, immerso nel liquido amniotico della Genesi) a forme altrettanto biologiche, in diretto connubio col suono (corde tese nella loro carne, che fa da cassa di risonanza come il fisico ai sentimenti) infine al simbolo eccelso del creato: il Verbo, come esplosione-luce, da uno dei “buchi neri”cosmici del passato infinito.

Questo sole ritengo un capolavoro, anche per aver dato tecnicamente il senso del fuoco, da un quasi monolito. Esso partecipa del miglior istinto primitivo di creazioni che riesumano estasi ermetiche dell’arte egizia (con tanto di binomio “forma-suono”) o dell’aurea precolombiana. Questo suo “Ra” Degno d’essere esposto nel tempio della grande Arte.

La scultrice “musicista”e, perché no, “antiquaria” anzi…”preistorica”, in questo quadro di via Giulia ricco di concerti e di oggetti preziosi, mi ha riportato a nomi di altri “primitivi gemelli” come Erasmo Valente, autore del brano pianistico: Stein Musik, appunto, la voce della pietra.

Questo letterato e critico musicale è stato di recente premiato da Scena Illustrata per la versione scientifico-poetica d’una irripetibile guida all’ascolto del Mikrokosmos di Bartok che, in fatto di informazione sui primordii, non scherza.

Giusto, dimenticavo l’ultima qualifica della Datti Mazzonis: il poeta, per un cartone timidamente appeso al muro della Galleria in cui, immacolato, appare anche l’autografo: “in principio fu un suono - uscì dall’abisso, dalla caverna - il suono diventò luminoso - si fece ritmo - si tramutò in materia - le forme sono il ricordo di un suono antico…”