Testi critici
Gabriella Dalesio
Testo in catalogo
Bologna 1992
La centralità di uno spazio interiore segna l’operare estetico di Immacolata Datti. Lo è quale passaggio, transizione dalla evocazione di un principio coincidente al piano originario del sentire e dell’essere.
Sentire: ha come prima valenza ascoltare e ascoltarsi come suono originario. Il rapporto tra suono e materia segna l’inizio della ricerca della Datti. Ma lo è, come primari esperienza artistica: l’affondo nel proprio centro interno: la possibilità di sentire il proprio essere, coincidente con il suono primario cui ciascuno corrisponde, concezione questa,propria di una forma di religiosità dei popoli andini, esperita direttamente dalla Datti,in un viaggio in quei paesi. Accanto ad essa vi è l’esigenza di ripercorrere, (in senso non solo antropologico, ma anche simbolico)antiche culture quale quella andina, e di Malta, quest’ultima alle origini della nostra cultura mediterranea.
Che cosa avviene nel passaggio dall’ascolto della materia alla sua osservazione quale immagine formale? Rendere percepibile questo passaggio (dall’udibile al visibile) è centrale per la sua riceca.
Non a caso utilizza la terracotta, antico materiale evocativo il cui uso ha accompagnato intere epoche storiche segnandone passaggi ed epopee.
Nella ricerca del decennio scorso la Datti seguiva, anche formalmente, la metamorfosi dal suono alla materia alludendo, nelle sue forme concave ed alludenti, ad una simbologia usata da civiltà arcaiche relativamente al principio femminile. La circolarità tendeva a captare, in un doppio movimento transitorio –dall’interno del lavoro al suo prendere forma, dal suono come ascolto interno, al suono come ascolto interno- la meditazione che articola i due primari suoni dell’OM: co-incidenti tra la nostra esistenza come individui e il principio vitale, tra microcosmo e macrocosmo. La doppia circolarità è mantenuta negli ultimi lavori, quali “Medievale”, “Sezione di pilastro”, “Tastiere a confronto”, come articolazione ulteriore dall’intenzionalità quale atto meditativo interno dall’artista, alla parte visibile di esso: l’accostarsi tra le forme tagliate e concave, separabili ed unibili, differenti ma simili, transizione tra la tangibilità della materia e l’allusione alle sue zone vuote. In “Sezione di pilastro”, l’accenno alla simbologia della colonna e alla sua funzione archetipica, viene ad essere modificata. Tagliata e sezionata rivela incastri, colori e materiali apparentemente diversi: è un libro della memoria, presente non solo come testimonianza di un tempo storico la cui incidenza è ancorata al passaggio umano, ma evocativa di un tempo cosmico le cui misure non sono individuabili nella durata ma nella coincidenza di infiniti: nella verticalità dell’atto meditativo. Intarsi, risonanza, vuoto come origine, originarietà sottraentesi alla forma evidenzia quello che lei sottende: l’invisibile presente, la condizione che permette alla materia di segnare la pagina bianca del nostro immaginario prima che questo prenda forma: condizione di partenza e condizione di infinita estasi.
La colonna allora diviene la verticalità della distanza storica, ripercorsa dall’interno, nel gesto e nell’azione di trasformazione di un materiale che, proveniente dalla terra, si erge e rappresenta i mutamenti culturali dell’umanità. La forma viene a rappresentare questo passaggio interno, il suo sezionamento e taglio evocano gli intarsi, i passaggi del tempo.
Immacolata Datti vive e lavora nella campagna limitrofa di Roma. Di questa città, (in cui ha trascorso gran parte delle sua vita), le permane l’immagine delle rovine, il sovrapporsi di stili, di epoche che come un intarsio visivo alludono a passaggi che (ora) sembrano essere stati repentini e coincidenti. La memoria e le memorie, le storie si sovrappongono, si intersecano a formare un groviglio visivo, un puzzle inesplicabile che salta e contrae nell’immagine attuale, secoli di storia. Credo che questa sia presente fortemente nel suo lavoro segnando la condizione anche esistenziale dell’umanità: vivere fra le rovine di un’epoca e di una storia che, rinchiusa su se stessa, si sgretola presa da una logica di autodistruzione. Forse un nuovo inizio è possibile rielaborando, al nostro interno, una possibilità e una capacità di ascolto, semplicemente di noi stessi. Questo, forse, può permetterci di prestare attenzione, minima, alla quotidianità della vita, a noi stessi come agli altri.
È la via, il senso del poeta e del poetare, e l’arte non ha forse, intrinseca, questa richiesta?
E cos’è l’artista se non uno “sciamano” dell’umanità che intravede e rende visibile quello che ciascuno ascolta, al di là ed oltre i commerci sociali su di essa?