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Giancarlo Zizola

“La Crista crocefissa”
Roma, aprile 1976


Il corpo appeso nudo alla croce, storto dal dolore, è femminile, una Crista crocefissa, la bocca urlante, la pancia martoriata. È la figura più aspra della mostra di terracotte e bronzi aperta a Roma da Immacolata Datti Mazzonis, attiva nel femminismo cattolico e comunista. Via i bei corpi dell’eterno femminino, le sacre famiglie, le donne angeliche e beatificate, dove si sublimava la rottura edenica tra carne beata e coscienza. C’è invece un femminismo tradotto in simboli, una politica che si fa figura, persino un tentativo di analisi dell’ideologia primordiale che ha reso serva la donna, fornendo alla cultura, alla chiesa, all’economia il mito necessario per usarla salvandosi l’anima: l’ideologia cioè della maternità, vista come “ruolo” fatale, immodificabile, una specie di Sisifo sessista.

Col suo Cristo-donna, la Mazzonis ha inteso assai più che infrangere uno schema iconografico, ha voluto restituire un simbolo assoluto al dolore femminile di ogni tempo, forse unire il messianismo cristiano all’utopia politica del riscatto della donna, oggi. Se i grandi maestri del cristianesimo hanno giustificato teologicamente la subordinazione della donna (stravolgendo il senso del racconto Della Genesi e del peccato originale), l’unica alternativa è ancora vista in Gesù, che frequentava le donne escluse dalla società e le faceva partecipare in prima fila alla vita evangelica.

Ma è sulla ragione dell’esclusione che la Mazzonis porta la sua ricerca. Le sue donne non sono più dalla parte della pace, del focolare, dell’eros, del ruolo pacificatore di seppellire i loro maschi morti. Questo schema filosofico è contestato, con l’identità tra sesso femminile e vita. Dietro le sagome di queste madri, gonfie più di destino funebre che di fecondità, non c’è più innocenza romantica, c’è solo un’atroce agonia, dalla quale urla una muta protesta. Donne con corpi gravi, schiacciati alla terra come condannati alla natura, solidi e quasi rassegnati. Figure di madri piegate sul figlio che sgorga dal ventre. Oppure, grembi vuoti, modellature larvali, oniriche, feti che si stanno formando in una sorta di estraneità e di assenza o che si sviluppano in cavità entro le quali grandi buchi permettono di vedere l’origine della vita, ma ancor più la struttura del ruolo biologico: l’uovo isolato nel vuoto.

Così è aggredita anche l’idea della donna “custode della vita”, a favore (questa la tesi della Mazzonis) della donna “essere umano”, né amazzone emancipata né facile vittima del suo corpo d delle sue deliziose sottomissioni. Scartata l’eroica epopea maternalistica, spezzata l’immagine rassicurante della “madre col bambino”. Qui il tema dominante è l’abbandono del figlio dalla madre, la donna che costruisce il suo destino per vedersene esiliata, bambini che si distaccano da lunghe mani, lunghi corpi materni, in una sorta di lascito allqa società, di consegna al mondo, il cui prezzo è l’infermità perpetua della donna, tanto riverita, ma in effetti lasciata a crepare per terra.

Questi corpi bucati, le pance svuotate, il motivo dell’uovo, in cui rifluisce la lezione certa di Henry Moore, servono alla Mazzonis per chiedere cosa sarebbe la donna senza utero, dal momento che è stata considerata animale domestico, partner erotico, madre, ma quasi mai essere politico e persona.

Così, queste Pietà del nostro tempo, dissacrate dalla loro stessa funzione biologica, nei cui uteri operano il genio della vita ma ancor più quello della morte e dell’assenza, della generazione ma ancor più quello della disperazione, entrano fra le immagini più vere della coscienza femminile d’oggi, mentre la donna è ancora sfruttata economicamente, non riconosciuta politicamente, utilizzata eroticamente, e accede faticosamente ad un’idea di sé stessa che sia una SUA PROPRIA CREAZIONE. Si impongono bisogni nuovi, a meno di non abbandonare la donna alla scoperta del suo vuoto, alla protesta per il suo Sisifo, o al perpetuo uso reazionario della sua passività: il bisogno di ricostruire un rapporto diverso tra la donna e la vita, un rapporto che passi dalla necessità biologica alla libertà della coscienza.