Testi critici
Lorenzo Mango
Testo in catalogo
Roma 1993
Entrare in questa mostra di Immacolata Datti è entrare in un luogo, affacciarsi in un mondo. Luogo e mondo che sono, prima di ogni altra cosa, architettura, disegno di città, progetto di un themenos sacro. Eppure sono sculture, quelle che l’artista ci propone, e nient’altro, senza neanche la pretesa di farsi installazione, scrittura d’ambiente. No, la dimensione architettonica del lavoro di Datti non nasce come cosa esterna, come accomodamento della forma alla stanza in cui è esposta; è, viceversa, cosa assai più remota e arcaica nel suo simbolismo primario. L’idea del luogo deriva dall’itinerario che lo spettatore è chiamato a seguire, da un’intuizione che sgorga spontanea quando quelle sculture vengono messe le une accanto alle altre per essere lette. Allora ci si accorge che sembrano frammenti, resti di qualcosa che non c’è più. Sono rovine. Nate rovine; costruite dalla mano e dalla mente dell’artista così come il tempo scrive i templi antichi, gli antichi luoghi di culto. E come nelle rovine ciò che vien meno è l’insieme. Ma questa mancanza anziché sminuire aumenta in noi, figli di Holderlin e Bocklin, il fascino ed il sentimento di spirituale che da quelle costruzioni, in origine, nella loro integrità, doveva sgorgare.
Ciò che resta sono porte, colonne e pilastri, anzi «sezioni» di colonne e pilastri. Nient’altro, nulla che suggerisca quella sacralità cui non possiamo, sappiamo e vogliamo sfuggire. È come se Immacolata Datti avesse lungamente investigato la natura simbolica delle sue forme e ne avesse estratto la memoria archetipica che ce le rende familiari. Una dopo l’altra le sue porte diventano gli accessi all’antro di Sibilla, i pilastri e le colonne introducono all’area sacra di chissà quale rito iniziatico. Il dato più interessante è che però tutte queste sensazioni non discendono in nessun modo da una scelta rappresentativa. Ciò che preme Datti è mettere in moto il meccanismo del simbolico principalmente, se non esclusivamente, attraverso la messa in gioco delle forme e delle materie. Ecco allora da un lato i riferimenti ad una sorta di minimalismo magico e dall’altro il lavoro sulla terracotta.
E forse è proprio nella scelta del materiale che risiede la molla originaria del simbolismo di Datti. Tradotte in altri materiali le sue sculture, probabilmente, non ci introdurrebbero al mondo arcaico e sacrale di cui parliamo. La materia, certo, non è tutto nella scultura. Troppa retorica si è fatta attorno a questo argomento. Ma se non vuole essere tutto, se cioè non viene esibita di per sé ma è organizzata entro una forma, esprime senz’altro il respiro della scultura. La presenza della terra ci parla di un luogo di energia vitale, di nascita, di fecondità, di calore e di odori. Suggerisce i paesaggi, evoca il ricordo. La terra è già memoria, ma quando poi si cuoce, quando è sottoposta al processo di trasfigurazione che la renderà cotta, allora quella dimensione simbolica da latente si fa palese. La terracotta è frutto di una fusione alchemica, nasce come matrimonio fra la terra e il vento, tra la fiamma e l’acqua. È quindi crogiuolo del simbolico inteso nella sua forma più archetipica ed universale. La terracotta ha un profumo che ci giunge attraverso le dita, un gusto che ci colpisce attraverso lo sguardo. La presenza della terracotta risveglia in ognuno ai noi l’uomo delle origini, stimola una sensualità che la ragione non può mascherare. È, quindi, attraverso il tramite nobile della materia che il processo di riduzione minimalista di Datti diventa simbolico. Le sue «sezioni di pilastro» non sono altro che sezioni di pilastro, segmenti di un elemento architettonico, eppure la materia fornisce loro il respiro delle origini, ricollegandoli idealmente alle soglie di un tempio, di una città sacra che non sono mai esistiti ma la cui eco simbolica non si è mai estinta.
Il luogo cui la scultura apre è un luogo fantastico, è un luogo poetico, perché «poeticamente abita l’uomo». Datti sembra inseguire quel luogo, consapevole, però, che noi non potremo mai percepirne che le rovine. Il mondo simbolico che ci fronteggia nasce già morto, inizia dalla sua fine. È questa la condizione della nostra modernità che Datti riesce a cogliere ed a farci percepire con intelligenza.
Adesso siamo nuovamente di fronte al luogo della mostra. Sappiamo forse meglio qual’è lo spessore simbolico di cui l’artista è andata in cerca e che offre oggi alla nostra contemplazione. Percepiamo che abbiamo di fronte i frammenti di una città simbolica di cui non potremo mai conoscere l’intero; siamo consapevoli che non possiamo ricavar senso che dalle schegge di materia che abbiamo a disposizione. Tornano alla memoria, allora, un celebre racconto di Borges e la straordinaria interpretazione che ne da Baudrillard. Nel racconto si parla di un gruppo di cartografi, impegnati a realizzare la mappa più fedele possibile del regno. Tanto lavora quel gruppo d’uomini fino a realizzare una certa geografica che è grande esattamente quando il territorio da rappresentare. Conclude Borges: oggi, a distanza di tanti secoli, di quella mappa non restano che frammenti sparsi qui e lì per il territorio del regno. Baudrillard, invece, propone di invertire la conclusione della storia e dice: oggi, nella società postmoderna, ciò che resta è solo la carta geografica su cui, qui e lì, sedimentano frammenti dell’antica realtà materiale. Di fronte alle sculture di Immacolata Datti viene da chiedersi: e se quei pilastri, quelle porte, quelle colonne fossero parte di quel mondo delle origini spezzato e frammentato? Se fossero il segno di una verità materiale cui sfugge il tempo presente e che permane, invece, come necessità nella nostra coscienza? L’opera, come è giusto che sia, non fornisce risposta. L’arte tace. La sua riposta è il silenzio.