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Mario Maiorino

“Le sculture sonanti di Immacolata Datti Mazzonis”
Cava dè Tirreni, testo in catalogo, dicembre 1982


Non sono un ritrovato d’effetto, le sculture sonanti della Datti Mazzonis. Sono, piuttosto, scelte fatte nell’ambito di un lavoro che, silenzioso, vuole essere anche canto, ed eco di un passo, di una voce, di un suono. Si pensa subito all’orecchio di Dioniso; ma si pensa, anche, a tutte quelle cavee greche e romane, a quegli anfiteatri fatti per l’ascolto e la percezione, in cui il senso dell’umanità veniva tutto raccolto nel significato della parola e della sua eco, e ancora con la suggestione che l’una e l’altra creavano.

Immacolata in questo senso non è la prima a dirci, e a mostrarci, delle sculture sonanti; chè potrebbe andarsi anche a riferimenti di cosmogonie più lontane, africane e asiatiche, alle parole delle cavità secolari, ai linguaggi di una paura. Ricordiamo per tutti, allora, l’antro della Sibilla, così vicino a noi, con tutto il suo mitografico virgiliano, e all’emanazioni musicali moderne delle chitarre elettriche e di vari suoni elettronici.

Ma la Mazzonis si rifà alla natura. Ella ricrea forme che hanno a che fare quasi con quelle di animali della sottospecie, come la lumaca, e con le cavità che ripristinano espressività perdute. Intendiamoci. Ella non va all’artificio in qualunque dei modi pur di ottenere dalla forma un suono. Ella, di contro, cura la struttura di una scultura in quanto tale, con la sua eleganza e la sua essenzialità di vita; di una vita che vuol essere umana, perché, appunto, dovrà essere promanazione di segni e di amore di umanità. E c’è tale uno stile in questa proiezione di corpi così presenti a noi stessi, in questa integrazione così motivata nel significato di un’autenticità, in questo quasi mito secolare delle pietre che suonano parole, e in questa contemplazione della solitudine, che allorquando da una sua scultura emana il suono, non puoi accorerti se non che esso è il fatto più naturale e consequenziale, dati gli equilibri di una realtà così ritmata nella sua bellezza.

E questo sentire naturalistico, e questa sottile consegna di un passato, di pietra e di eco, al presente è così vivo e così ritrovato, che la ricerca di quest’artista è la stessa indicazione di un affidamento, della funzione e della sensibilità di una vita; di una vita che è senso non comune, ma è mondo, è universo e cielo, e commento di una realtà che, sognata e osservata, viene anche dall’ignoto di un apocalisse non saputo, né veduto. E sono forme, le sue sculture, che vivono anche di finezza, di pro positività del divenire di un gesto, anche come lettura di una pienezza nei volumi che circondano gli arrotondamenti, o di tagli che spezzano le ovalità e le concave misure. Ti accorgi di lei, come di un Brancusi nel tempo, o di un Boccioni nell’usabile di una continuità d’azione. Sono entità preminenti, anche di trascendenze, queste continuazioni nel tempo di una scultura; e sono, ancora, epifanie linguistiche e desiderio di pervenire all’altro di una realtà silenziosa e sfuggente.

Per queste entrate ed uscite in talune misure emotive, Immacolata Mazzonis porta avanti un impeno indubbio in talune sue certezze: che, il nostro ultimo mistero può anche essere nascosto in una cavità che riteniamo, a ragione, vuota; ma che, a ragione, proprio perché vuota, è atta a porre relazione tra noi e la natura, tra noi e l’immagine, tra noi e la proiezione di una nostra continuità. L’eco siamo noi stessi.