Testi critici
Paolo Balmas
Testo in catalogo
Roma 1995
Forse è soltanto suggestione, ma c’è qualcosa nel territorio stesso su cui sorge Roma che ci fa sentire ancora vicine le sue origini. La cosiddetta città eterna è sì un’entità quasi mitica alla quale sono stati pagati nel corso della storia tributi a volte anche spropositati, tuttavia, chi vi abita e soprattutto chi conosce bene la campagna e gli altri luoghi e siti che la circondano non sentirà mai davvero irrecuperabilmente lontano quel mondo di pastori, contadini e artigiani, solo in seguito destinati a divenire guerrieri, cui sicuramente appartennero i suoi effettivi fondatori. E percepibile intuitivamente sembra anche essere, per certi versi, al di là di una leggenda a suo tempo alimentata ad arte per motivi ideologici, una qualche affinità di fondo con quella Grecia arcaica che vide sorgere e consolidarsi il più celebre e celebrato complesso di credenze pagane di tutta l’antichità, la «mitologia» per antonomasia con la sua ufficialità esiodea e la sua controfaccia orfica.
Se, però, proviamo a chiederci cos’è il «qualcosa» di cui stiamo parlando senza affidarci ad un filo conduttore già collaudato, se proviamo a stringerlo dappresso confrontando e giustapponendo tra loro, così come ci si presentano, mille impressioni disparate: aspetti del clima, variazioni della luce, caratteristiche geologiche e particolarità della vegetazione, probabilmente non verremo mai a capo del nostro problema. Se per un attimo, invece, abbandoniamo la nostra scaltrezza di moderni e ci lasciamo sedurre dalla tradizione, (una tradizione culturale gravata sì di un’intollerabile succedersi di accademismi, ma, di fatto, mai messa radicalmente in discussione da nessuno), la soluzione del dilemma ci si imporrà in qualche modo da sé: il «qualcosa» che cercavamo è il principio della misura, dell’equilibrio dimensionale direttamente percepito nelle cose e nei ritmi della natura, e da questa esperienza trasferito nelle opere dell’uomo. Immacolata Datti che a Roma è nata ed è vissuta, considerando sempre questa città come una sorta di centro ideale e ad un tempo concreto al quale rapportare le sue pur ampie esperienze di viaggio e soggiorno in diverse parti del mondo, è interessata con assoluta e diretta evidenza proprio all’ambito di riflessione che qui si è tentato di lumeggiare. Naturalmente nel suo interesse, che è interesse inscindibilmente artistico ed esistenziale, la retorica dei primordi irripetibili e l’esaltazione dell’antichità classica non c’entrano per nulla.
La «misura» indagata dalla Datti, non è infatti quella dell’armonia come risultato dell’azione costruttiva di uomini che nella loro semplicità erano grandi senza avvedersene o di altri più ambiziosi che vollero lasciare traccia di se in creazioni concepite per sfidare il tempo e raggiungere i posteri; è piuttosto la «misura» come scoperta intima e ancora da codificare, l’«equilibrio» come constatazione immediata che, agli albori stessi della i coscienza umana, (intesa sia
come coscienza del singolo che come coscienza dei popoli), rende meno ingrato il rapporto con la realtà ed apre uno squarcio consolante nel buio del nostro non sapere e nell’abisso del nostro veder troppo rispetto al poco che siamo realmente in grado di conoscere.
Parlando di «albori della coscienza», lo si sarà capito,mi sono mantenuto di proposito nell’ambiguità. Chiarisco subito di averlo fatto per poter meglio introdurre ciò in cui mi sembra di poter individuare il nucleo di senso più interno alla ricerca della nostra artista, il suo centro di gravità nascosto, o, forse, sarebbe meglio dire, elegantemente non palesato. L’aurorale insorgere di consapevolezza cui si sta qui facendo riferimento non deve essere considerato,infatti, a mio avviso, come un ché di storicamente determinato, ma neppure deve essere collocato nel limbo di una filosofica astrattezza ed inverificabilità. Si tratta piuttosto, come già rilevato, di un principio, di un qualcosa che sta all’inizio e da inizio, dunque di un luogo dell’esperire se stessi e il mondo, già inveratosi in una innumerevole serie di occasioni-invenzioni e tuttavia pronto a riproporsi in un’altra serie omologa proiettata in avanti ed infinitamente aperta. Ecco allora che i diversi cicli di lavoro fin qui affrontati da Immacolata Datti, con tutte le tematiche culturali e le suggestioni poetiche presenti al loro interno, (peraltro puntualmente individuate da una critica attenta e convinta), rivelano ai nostri occhi una logica di sviluppo libera e varia,ma anche assolutamente coerente e pervasa di una medesima unificante forza interiore. L’arcaismo stilistico e il gusto per le materie e le lavorazioni più elementari sono insieme rivisitazione di antiche civiltà cui ci sentiamo tuttora legati e riferimento a forme elementari di manipolazione creativa che non ci spaventano con la loro inattingibilità; la musicalità concreta, (sperimentabile e ben evidenziata anche a livello di organizzazione simbolica delle forme), propria di tanti pezzi in terracotta è insieme testimonianza ingegnosa di quella condizione unitaria cui tutte le arti tendono secondo il famoso detto del Pater e ripercorrimento ideale dell’intelligente amore del fare con cui oscure generazioni di nostri antenati misero a punto, per prove ed errori, strumenti magicamente capaci di unire la sacralità al diletto. Il sapiente accostamento dei colori, (che sono sempre i colori stessi dei materiali trattati allo stato naturale), infine, con la sua calda ed umanissima sobrietà è insieme un omaggio al gusto quale entità superindividuale che lega il lavoro e le abitudini degli uomini a segrete rispondenze di vibrazioni luminose e un ripensamento dell’idea di genius loci non più come limite regionale bensì come ampliamento e rifusione nel sociale delle motivazioni estetiche dell’artista.
Tenendo conto di quanto fin qui detto la presente mostra con i suoi due gruppi di «architetture», così diversi e chiaramente leggibili quanto a referenti storico stilistici, si lascia facilmente interpretare quale tentativo indubbiamente riuscito di alzare il tiro del discorso, ovvero di imboccare la via della sintesi inaugurando un livello di complessità semantica non ancora sperimentato.
Sulla capacità dell’architettura di proporsi come disciplina che coordina e fa interagire tra loro le diverse arti, musica, pittura, scultura e decorazione, sono state scritte dall’antichità ai giorni nostri, da Vitruvio a Le Courbusier, pagine straordinarie di volta in volta legate ad ideali, aspirazioni e persino urgenze storicamente differenziate e variamente
connotate. Non per questo, tuttavia, dobbiamo sentirci autorizzati a pensare che la proposta della Datti abbia come scopo quello di inseguire, sempre ammesso che sussista realmente, il minimo comun denominatore spirituale di tante riflessioni e dichiarazioni di poetica. Al contrario il fatto stesso che la nostra artista abbia voluto inscenare due sole situazioni, una a registro per così dire megalitico arcaizzante e l’altra di ispirazione sicuramente cristiana, (ma con radici classiche), dimostra senza ombra di dubbio come il tema nel nostro caso sia quello della religiosità del costruire, del legame tra l’arte di edificare e l’enigma dell’al di là.
Anche qui naturalmente il principio della misura, soprattutto come riferimento imprescindibile all’universo dei suoni, la fa da padrone. Il riferimento in questione, però, questa volta non è più diretto e per certi versi ludicamente sorprendente come in passato, bensì, in qualche modo, già avviato alla codificazione e quasi criptico. La ragione è evidente e fa tutt’uno con quell’innalzamento del tiro di cui si è appena parlato. Ora ciò che interessa, infatti, non è più l’esperienza immediata dell’equilibrio armonico come realtà interiore che subito si proietta all’esterno, bensì quella, altrettanto intima’, ma meglio comunicabile, della sua applicazione intesa insieme come invenimento di una tecnica e volontà d’arte.
L’individuo e non lo stile, l’uomo e non la sua opera, restano, tuttavia, l’obbiettivo principale dell’indagine con cui ci stiamo confrontando, e a riprova di ciò sta proprio, ancora una volta, una realtà dimensionale e formale ad un tempo: i lavori che abbiamo davanti non superano di molto le proporzioni della persona umana, né si articolano in maniera tale da perdere ciascuno la propria individualità in funzione di un insieme o di un percorso. Più che frammenti o parti essi sono dei concentrati, appunto, di architettura, pittura, scultura e musica, pensati e sentiti anche come frutto di un sapiente lavoro artigianale.
Ma chi allora, viene spontaneo chiedersi, al di là dell’identità anagrafica dell’artista, ha costruito tutto questo? E per chi? Quale, in altre parole, il tipo di soggettività e di corrispondenza tra soggetti che la Datti intende mettere in gioco nella sua personale concezione del rapporto artista fruitore?
La risposta naturalmente non può che essere ancora ricerca tanto più seria e coinvolgente quanto più lontana da ogni tentazione didascalica. Ciò non toglie, però, che le indicazioni forniteci siano molteplici e convergenti: da una parte una sicura intemporalità, dall’altra un preciso riferimento a cicli storici determinati; per un verso «la concreta evidenza di tecniche e materiali più che familiari al vivere di chi abita un determinato territorio, per l’altro una loro messa in forma secondo leggi intuitive che si collegano immediatamente a dati esistenziali ed esperenziali comuni all’intera umanità; da un certo punto di vista, infine, un indubbio radicamento nel fare e da un’altro, ad esso contiguo, l’immediato trascendimento dello stesso.
Il luogo, la postazione particolare, in cui situarsi all’interno di tutte queste oscillazioni parallele resta, ovviamente, un problema di chi guarda, ma l’invito è più che evidente: solo ascoltandosi è possibile dare inizio ad un vero processo di ascolto di tutto quanto ci circonda e solo dalla tensione a far coincidere ad infinitum queste due esperienze può nascere un senso della misura che sia propriamente costruzione e non mero espediente costruttivo.