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Renato Minore

“I. Datti Mazzonis e l’arte femminista”, 1976


C’è tutta una letteratura critica e figurativa che vuole l’esordiente alle prese con la vitalità della propria strumentazione tecnico-linguistica. Il risultato è sempre descritto in modo stereotipato:quanto più forte è il calco di quella vitalità tanto più la creazione culturale e artistica con approssimazione e fatica mostra le sue intenzioni.

Al suo esordio come scultrice, prima in occasione dell’ultimo Festival dei Due Mondi di Spoleto, poi in una recente mostra a Roma, Immacolata Datti Mazzonis ribalta positivamente questo statuto e mostra come si possa essere già dalle prime prove pienamente consapevoli della propria ricerca.

Una consapevolezza davvero esemplare: Immacolata Mazzonis si situa nell’ambito di quei movimenti ideologici che, recuperando la figura della donna nella sua specifica strutturazione culturale e antropologica, ne denunziano la sofferenza e lo sfruttamento che la storia ha compiuto ai suoi danni.

Ecco allora le sue figure –esili figure intenzionalmente sottratte ad ogni tipo di mimesi e di ricalco Naturalista o realista- che con violenza, nel proprio informe strutturarsi, denunciano il sopruso della maternità: una maternità intesa come “destino” e non come “scelta”. E di quel sopruso, che è un vero e proprio mot- d’ordre per tanti movimenti non soltanto femministi, è evidenziato il momento più tipico e aberrante: la perdita dell’identità storica e psicologica, le “pance vuote” che con tanta frequenza ricorrono nella scultura della Mazzonis. Una simile operazione corre naturalmente verso la cifra e l’astratta significazione del simbolo. Quella cifra e quel simbolo che compaiono, per esempio, in una assai persuasiva Crocefissione, di intensa deflagrazione drammatica ed “epica”. E ancora più felicemente sugellano la realtà, la scarnificata “materia” di altre figure femminili che si incontrano nella produzione della Mazzonis. Qui la mutilazione, il vuoto diventano un icastico modulo stilistico assai ricorrente; qui il mito della natura femminile mostra il senso culturale e alienato dela sopraffazione e della violenza storica. E giustamente il critico d’arte Elio Mercuri ha parlato di un “sentire naturalistico del corpo” che non fa velo ad una articolata comprensione di ciò che i gruppi femministi chiamano il ruolo subalterno della donna sancito da sempre nella storia.

Veniamo così alle problematiche più cruciali dell’arte cosidetta “femminista”. Restiamo all’esempio fin qui utilizzato: nel cogliere non la macroscopica evidenza ma il sotile inquietante e persistente riverbio di una verità che la riguarda come scultrice e come donna. La Datti Mazzonis dimostra che lo spazio riservato a questa arte “femminista” è proprio quello in cui si sta muovendo. Con chiarezza e con determinazione ma fortunatamente senza l’eroico e grezzo furore che caratterizza altri esempi di femministe che operano e non soltanto nel campo artistico.

Cosa avviene in questi esempi che spesso vengono pubblicizzati anche con lusinghieri avalli? È presto detto: alla fase scontata della dissacrazione e della verve pamphlettistica non fa seguito un reale approfondimento ideologico e una conseguente scelta delle modalità e delle tecniche con cui operare. Insomma non è sufficiente dichiararsi femminista e magari esserlo realmente per fare un’arte “femminista”.